Gianni Furlanetto, cineclub.it

Intervista con
Daniele Segre
regista del film
«Manila Paloma Blanca»

Venezia Lido, settembre 1992

D. La storia che racconti con il film è legata ad una tua vera esperienza di vita?
R. Diciamo che lo spunto per raccontare questa storia nasce dall’incontro che ho avuto con Carlo Colnaghi, protagonista nel film, e dal nostro incontro Š nata l’idea di raccontare questa storia. Sicuramente quello che viene raccontato non è finzione. Non solo perché ci sono dei punti di contatto con l’esperienza umana vissuta dal Colnaghi, ma perché è un problema che riguarda un pochino tutti quanti noi. Chi ha voglia di confrontarsi con questo problema, in qualche modo dei punti di contatto con la realtà. Non è detto che bisogna essere per forza matti, non è detto che si debba essere per forza emarginati per sentirsi a disagio e aver paura di affrontare la realtà.
D. Rispetto all’esperienza e all’amicizia che lega Colnaghi a te, la parte finale del film lancia un segnale estremamente negativo. Per questa gente, nonostante possano aprirsi dei momenti quasi di rinascita, l’epilogo di queste storie emerge nella sua drammaticità più nera. Al di là del tuo personalissimo caso, come vedi la realtà dei nostri tempi?
R. Almeno fino a prova contraria, io credo che la vita sia estremamente dura… specialmente oggi. Quindi con un sano e preciso realismo ho cercato di spiegare chiaramente come stanno le cose senza prendere in giro nessuno… tipo ®stucco e pittura fan bella figura”, tanto per compiacersi e dare un consenso emotivo per stare tranquilli. Io in questo momento non sono assolutamente tranquillo e sono attraversato da un’inquietudine che riflette anche il mio cinema ma che in questo momento riflette una realtà europea tragica, terribile, piena di incognite e di brutti presagi. Io di questo sono spaventato.
D. A proposito della tecnica… La scelta della macchina a mano a me ha dato una sensazione di maggiore concentrazione sull’attore. Era voluta ho è stata solo una mia impressione questa scelta un po’ claustrofobica… il fatto che quando il protagonista si alza la macchina lo segue?
R. Penso che nessuna scelta, in generale, sia del tutto casuale. La scelta della macchina a mano per tutto il film, a parte un inserto in bianco e nero in cui la macchina Š su cavalletto, Š voluta come Š stata voluta la scelta di una certa fotografia proprio per dare quell’immediatezza e quel rapporto diretto con il pubblico e con lo spettatore. Certamente non c’è niente di casuale anche se sembra così naturale – perché ti penetra subito – ed è tutto studiato perché ci sia quest’effetto.
D. Si ha proprio la sensazione di essere vicini…
R. Se tu hai avuto questa sensazione mi fai contento perché da quanto tu mi dici vuol dire che io ho raggiunto il mio scopo.
D. Al di là di una semplice e facile interpretazione psicanalitica, che ruolo ha l’acqua (l’acqua che scorre a volte tumultuosa a volte più tranquilla come se fosse uno stato d’animo) in “Manila Paloma Blanca”?
R. Sicuramente è un bisogno di rinnovamento e di vita nuova. L’acqua da questo punto di vista può essere simbolicamente intesa in questo senso, cioè la voglia di cambiare. E l’acqua, anche quella più furiosa, mi sembra che possa dare l’esatta immagine delle sensazioni che possono scorrere: i sentimenti che ci possono essere nella vita di una persona, nel bene e nel male, in una storia di morte come può essere “Manila Paloma Blanca”, che è allo stesso tempo anche una grande storia di vita. Questo nel senso che se anche l’impressione è così tragica – è un film tragico – è un film di vita e l’acqua dal mio punto di vista testimonia questa forza che scorre, che scorre in continuazione… sono io, credo.
D. La scelta di Torino e la relativa rappresentazione di questa Torino notturna, abbastanza silenziosa, abbastanza vuota… come mai proprio questa scelta, come mai fra le città… e comunque come mai questa dimensione di Torino?
R. Torino è la città dove da sempre vivo e nella quale ho anche sempre lavorato. Quindi, per ovvi motivi anche produttivi, Torino era il luogo adatto per fare questo film. Inoltre, oltre a ragioni di tipo produttivo, l’atmosfera e la realtà di Torino mi sostenevano nella scelta artistica di raccontare una storia così tragica. Torino mi piace, non posso dire che non mi piace, ma Torino è molto dura, molto difficile e chiusa; fare i conti con questo carattere, a volte, è impegnativo e faticoso, oltre che molto formativo nel senso che se tu a Torino riesci a farcela puoi stare tranquillo per tutta la vita. Però Torino a volte sa respingere come ben poche altre città.
D. Quale è il ruolo delle donne in questo tuo film?
R. Innanzi tutto non è detto che Bianca, la sorella di Sara, abbia amato, anche se da come si comporta può sembrare una vecchia fiamma che ha già vissuto nel passato quello che Sara vivrò oggi. Ed è per questo una forma di amore protettivo che vorrebbe evitare che Sara cadesse nello stesso meccanismo autodistruttivo in cui lei è già caduta nel passato. La donna in questo film, anche se questo tema non l’ho approfondito moltissimo, credo sia una figura positiva come del resto sia nella vita. Gli uomini sono in panne in questo momento e l’unica possibilità di trovare delle risposte vincenti credo che arrivi dalle donne che, da tutti i punti di vista, hanno una capacità, una resistenza e una sensibilità che mancano all’uomo. Nel film questo può essere solo intuito nel senso che la narrazione è così ossessivamente centrata su questo protagonista, su questo Carlo Carbone, che può solo essere intuito. Però quello che io penso della donna è questo insomma. Poi per fortuna alla fine Sara si sveglia e lo scarica: riesce anche a liberarsi da questa ossessione di questo individuo scaricandolo e dandogli le valige fuori della porta.
D. Nella parte finale del film Carlo Carbone pronuncia alcune frasi e dice “Voi avete paura di me perché io rappresento ci che voi non volete essere”. Puoi spiegarci il pensiero che sta dietro quelle parole?
R. Lui dice “Sono lo specchio in cui voi vi riflettete ed è per questo che vi faccio paura¯… Perché c’è paura di guardarsi allo specchio, come c’è paura e timore, fastidio e rifiuto quando magari io faccio un nuovo lavoro, racconto certe cose che la gente non ha voglia di sentire. Perché è meglio evitarle! All’opposto io credo che bisogna avere il coraggio di pensare, di dire e di ricordarsi di ricordare. In questo momento, dove purtroppo molte persone hanno una grande labilità di memoria, dove non si rendono conto che c’è già un passato che ci insegna e ci ha fatto vedere delle cose tragiche e che stanno ritornando in modo così eclatante e attraversano l’Europa. Vogliamo ancora far finta che non succede niente? Questo specchio tragico rappresentato nel film da Carlo Colnaghi è un qualcosa sicuramente inquietante che attraversa i nostri sentimenti: Secondo me bisogna prendere coscienza delle nostre contraddizioni e bisogna guardarsi tranquillamente in faccia. Anche nelle insicurezze che ciascuno di noi ha, p erché è da queste insicurezze che forse può venire la certezza e la chiarezza di una vita sicuramente più dignitosa e coerente, altrimenti io penso che non si possa vivere bene.
D. Colnaghi ha detto “Grazie a Segre sono tornato alla vita”. Però è tornato ad una vita difficile, nel senso che il cinema è un ambiente in cui non è facile vivere e dove spesso accade che persone in qualche modo riprese dalla strada abbiano solo uno ®spazio¯ felice per poi ricadere nel nulla. Lui ha poi detto che spera di continuare a collaborare con te. Questa possibilità di collaborazione ha dietro anche il desiderio di aiutarlo?
R. Innanzi tutto io devo dire grazie a Colnaghi che mi ha permesso di fare bene il mio mestiere. Io ho avuto la fortuna di avere a disposizione un attore così straordinario e così assoluto che, insomma, mi ha permesso di maturare. Quindi è stato un aiuto reciproco innanzi tutto. Sicuramente quello che dici tu è un qualcosa di drammatica realtà. Con Colnaghi è stato attivato un rapporto di amicizia e di sostegno reciproco: è un’avventura che dura ormai da sette anni e penso che continuerà per i prossimi cinquant’anni. Lavorando o non lavorando. Quello che è importante è che è nata un’amicizia, è nata un’esperienza di vita che vale molto più di cento film… E per me questo è il cinema, altrimenti non lo faccio, cambio mestiere.
D. Quindi il cinema fine a se stesso, come espressione artistica, non ha senso?
R. Io rispetto chiunque voglia fare, comunicare e divertirsi. Dal mio punto di vista credo in questo tipo di cinema che faccio e credo nella vita e nei rapporti con le persone. E credo nella solidarietà e sono contro l’indifferenza.
D. In questo caso si è trattato di un’esperienza terapeutica oppure no?
R. E’ stata un’esperienza, che se tu definisci terapeutica, reciproca: per me e per lui. Cioé ci siamo aiutati a vicenda: lui ha imparato delle cose ed io ho fatto lo stesso. E ci siamo dati delle cose che valgono molto di più di cento film nel senso che ci siamo sostenuti nella vita e si è creato un legame affettivo, e non solo, che ci ha fatto scavalcare le montagne. Di questa nostra esperienza si potrebbe scrivere un libro, fare un altro film: è qualcosa di incredibile che è successo. Ed è avvenuto in modo talmente emozionante che essere qui a Venezia ci conforta: rispetto alla mediocrità che c’è in giro vuol dire che comunque un po’ di sentimento c’è ancora e questo può essere utile anche per gli altri.
D. C’è un’altra frase importante nel film e cioé quando Colnaghi dice ®Lui parla con gli altri, ma non sa con chi sta parlando¯. Mi spieghi il significato?
R. Il significato è già chiaro, insomma. A me succede, succede molte volte di parlare senza spare a chi sto parlando. Non perchè non so cosa dico, ma proprio perché non so a chi sto parlando, cioè trovo muri di gomma, allora metaforicamente possono venire fuori nel nostro cuore urli come “Manila Paloma Blanca”, urli di rabbia, perché non è giusto. E allora anche la gente si sturi le orecchie e abbia voglia di aprire gli occhi e insomma prendere coscienza di quello che esiste. Credo che si possa vivere meglio, anche con più fatica sicuramente… e lui urlava e diceva queste cose proprio per richiamare l’attenzione su questi culi di pietra che assolutamente fanno finta di non ascoltare. Io ritengo che non sia giusto.
D. Il film sembra molto vero. So che tu a Torino hai svolto anche una ricerca sul territorio. Ti ha aiutato questo a fare del tuo film quasi un opera documentaristica in un certo senso?
R. No, diciamo che innanzi tutto sono due cose diverse. Certo, io ho fatto molti lavori sulla realtà e ho trattato anche il problema psichiatrico, ho analizzato la realtà di quello che è successo riferito alla legge 180, ho fatto un video su ex degenti di ospedali psichiatrici che oggi sono stati reinseriti nella realtà produttiva e sociale. Con Colnaghi è stato un lavoro di studio avviato da un regista e da un attore, però Colnaghi, ripeto, è un grande attore. Ha avuto dei problemi, come li abbiamo avuti tutti quanti noi, come li ha avuti Vittorio Gasman. Vittorio Gasman ha avuto la fortuna di risolverli forse in modo più rapido perché ha più risorse economiche, chi non ha queste risorse a volte si trova nella solitudine profonda del disagio, anche economico che è quello che poi condiziona e non ti rende tranquillo per risolvere i tuoi problemi. Con Carlo invece abbiamo fatto uno studio che si è concretizzato nel video “Tempo di riposo” che sono quarantaquattro minuti di un lungo monologo che si interseca tra la realtà e la finzione con lo scopo, questo adesso è il mio bisogno, di creare confusione nel senso che lo spettatore doveva a tal punto vivere questo rapporto non riuscendo poi più ad identificare cosa poteva essere la realtà e cos’era la finzione, cosa che regolarmente è successo. “Tempo di riposo” ha rappresentato lo studio dal quale siamo poi arrivati a fare “Manila Paloma Blanca”. Il documentario non c’entra assolutamente niente. Tutto può essere invece riconducibile al tipo di linguaggio e di sperimentazione che io in questi anni ho usato, compreso il mio rapporto nell’osservazione della realtà. Allora a questo punto posso essere d’accordo tenendo sempre conto che alla base di tutto, compreso anche quello che può essere una categoria che io rifiuto perché credo che il cinema sia uno solo, qualunque cosa si possa fare, nella volontà e nella obbligatorietà di stabilire un rapporto con le persone con le quali tu hai a che fare, che incontri, e con le quali magari hai voglia di fare qualcosa. Innanzi tutto un rapporto di rispetto reciproco, di coscienza da parte anche loro, non solo del regista, di quello che si sta facendo e di quello che si vuole raccontare, dandogli quella coscienza e quel protagonismo che gli permette proprio, poi nella macchina da presa, nella pellicola, ne fotogramma, nel televisore, di esistere e di esistere veramente senza essere usati, spremuti e gettati: delle persone. [Gianni Furlanetto]